Ciò che più si apprezza, nell’acclive percorso artistico di DuminDa, è il recupero di quella freschezza espressiva che negli ultimi lustri di produzione contemporanea, di sole opere “pirotecniche”, era stata in parte accantonata, erroneamente sostituita da soluzioni capziose, da trovate dal fascino ingannevole, da opere dall’appeal ambiguo e fuorviante.
Questo valentissimo scultore di origine cingalese – abbastanza esperto per non cadere nella trappola del sistema-mercato e abbastanza libero per tentare sempre di essere se stesso e di perseguire una propria individuale sintassi in arte – affonda le sue radici in un humus profondo e ben sedimentato, che corrisponde a una stagione matura dello spirito. Niente espedienti, niente artifici, niente rischiose virate di lessico; bensì un meditato, costante, graduale approfondimento del proprio modus (divenuto sempre più riconoscibile negli anni), rinfocolando suggestioni solo apparentemente sopite e che ancora oggi dimostrano la propria validità nella ricerca di un linguaggio privo di gretti accademismi. Ravviva, ciò vale a dire, DuminDa, tutte quelle ascendenze che nel vasto repertorio delle forme gli sono consentanei spiritualmente (e si direbbe anche tonalmente, nell’alveo di un dialogo interculturale e analitico con le latitudini della sua terra d’origine); le riannoda, le reinterpreta, le riutilizza fino a renderle definitivamente proprie, indissolubilmente aderenti alla propria artigianalità di homo faber.
Tale processo – che non è nostalgico né ripetitivo di un ciclo – risponde perfettamente a una dimensione “altra”, che tende verso l’assoluto: un’entità di trascendenza onirica, che emerge sempre più nel costume non soltanto estetico di DuminDa, in contraddizione, forse, all’unidirezionalità della sua indagine sul colorismo. Una scoperta, in altre parole, della pluralità di scopo della propria esperienza, nei suoi succhi più autentici, nei recessi intimi del suo stesso spirito intellettuale: un viaggio à rebours nel tempo, alla ricerca del suo approdo perfetto sulle rive del Madu Ganga, caro alla sua infanzia.
DuminDa si è soffermato, in questo suo nuovo, affascinante migrare, sul crinale di un sapere che appare in perfetto equilibrio tra senso e ragione, una rimeditazione di misure e accordi in filigrana che si stemperano nell’idealismo cromatico dei suoi Paper Moods, nelle sue prodigiose scagliole che appaiono di un bronzo alchemico. E poi profumi, effluvi e fragranze che innescano “percezioni proustiane”, memorie olfattive da quell’endroit lontano, quasi equatoriale, che e il suo Sri Lanka irrinunciabile, rinnovato di stupori occidentali, della malia tragica e gaudente a un tempo: una natura dal binomio inscindibile, “luce e colore”.
Ecco, dunque, che un filo invisibile riannoda paramnesie e déjà vu, luoghi e atmosfere che ti si fanno incontro carezzevoli, declinando vissuto e maturità, trascorso e pienezza. Ed è un autentico recupero di memoria, un’operazione di straordinario amarcord. Estetico, diremmo, nella temperie di una palette dalle cromie suadenti, di riverberi appena svelati, nella dimensione intima di un interno vermeeriano che incoraggia la prosa e il dialogo. Un’arte, quella di DuminDa, appena impolverata di “nostalgia” (dal greco υόστος, ritorno, e άλνος, dolore; “dolore del ritorno”) ma bellamente avvolta da levità e misticismo. Tutto, in DuminDa, in sintesi, ci eietta in un’altra realtà, in un registro finalmente avulso dalle isterie degli “ismi” e dalla nevrosi di incasellare tutto a tutti i costi. Che sia proprio questo il segreto del potere attrattivo di Ajantha Duminda Jayasuriya, DuminDa tout court?
Quanta strada faccia un artista per i sentieri del proprio mondo interiore è difficile determinarlo. Ma DuminDa deve averne fatta tanta, con l’ostinata tenacia che è tipica della sua gente. E nelle soste avrà indugiato a verificare la somma delle proprie esperienze, dalle quali cogliere paesaggi densi di umore vitale e volti che emergono dalla memoria, con la loro fissità ieratica da taglio fotografico.
Massimo Rossi Ruben